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Il nostro Social Dilemma

13 - ottobre 2020

In uno scenario che non distingue più tra vita digitale e vita reale il ruolo dei social network non può sottrarsi a critiche e considerazioni che ne ispirino politiche più responsabili e un utilizzo più critico è consapevole da parte degli utilizzatori.

Non so se accade anche a voi, ma a volte, partecipando a un convegno, scopro cose che già so. Uso il termine “scopro” perché l’abilità del relatore è stata quella di selezionare gli argomenti, metterli in una sequenza interessante, strutturarli e correlarli e questo me li fa riscoprire e apprezzare anche in uno speech su cose che pensavo di conoscere.Scrivo “pensavo” perché la nuova architettura degli argomenti li riveste di una luce nuova, di un nuovo spessore e schiude nuove connessioni.

Questo, a mio avviso, è quanto accade guardando The Social Dilemma, il docufilm di cui i media parlano e che apre molte aree di riflessione, anche su quello che è diventato il mio lavoro, e su quella che è la mia storia, quella di di un copywriter del secolo passato che all’improvviso (accadde intorno al 2004) ha sentito vecchio tutto il modo di pensare e di operare dell’advertising patinato e multinazionale.

Torniamo però a The Social Dilemma, e al suo spaccato di vita realizzato attraverso filmati, fiction e interviste a protagonisti rilevanti della nascita e trasformazione dei social network.

Partiamo dall’assunto principale: una piattaforma social potrebbe funzionare da aggregatore sociale, è gratuita, è user-friendly, è piacevole, eppure tutto ciò, in realtà, è solo la superficie di un mare che nasconde un fondale non proprio cristallino. Una frase chiave per entrare nei meccanismi del sistema è quella che recita: “se non stai pagando per il prodotto allora il prodotto sei tu” ed effettivamente questo è ciò che accade realmente all’interno dei social network.

Sapere che in ogni momento della giornata alimentiamo un sistema che ci manipola perché ormai ci conosce benissimo, sa bene cosa ci piace e cosa no, sa che cosa stiamo facendo, sa con chi siamo e dove vorremmo essere o con chi, è alquanto inquietante.

Ancora più inquietante è sapere che questi meccanismi sono studiati appositamente per conoscerci sempre meglio e per manipolarci sempre di più spostando la nostra attenzione lì dove si desidera senza che l’utente se ne renda conto, assuefatto e impegnato a scrollare la sua timeline di Facebook.

Un altro paragone, noto agli addetti è quello dell’assuefazione ludica, della slot machine: “Se prendi in mano il cellulare, sai che potrebbe avere qualcosa per te”, sai che potresti aver “vinto”.

Per capire meglio e più in profondità questo discorso è opportuno soffermarsi sul comportamento e sul funzionamento del cervello umano proprio perché queste piattaforme sono programmate per esseri umani. Il meccanismo di manipolazione è dettato dal fatto che i contenuti di cui fruiamo spesso stimolano in noi la dopamina, il cosiddetto “ormone della felicità” che fa sì che ci sentiamo appagati e soddisfatti quando riceviamo un like, un cuore, un’emoji di apprezzamento ecc.

Tutto ciò genera un circolo vizioso nell’essere umano che quando si vede appagato vuole esserlo sempre di più. In questo quadro i social diventano simili a una droga.

Ciò accade perché l’uomo è un animale sociale, ha bisogno di sentirsi parte di un gruppo e i social alimentano proprio questo senso di appartenenza, seppur effimera.

Accade dunque che se lanciamo segnali sui nostri canali social e non riceviamo il riscontro che ci aspettavamo cadiamo in un deficit di dopamina che provoca ansia e in alcuni casi anche depressione. Ecco allora come i social riescono ad influire sull’autostima dell’utilizzatore e sulla percezione della nostra identità.

Solo due mercati definiscono il cliente come ‘utilizzatore‘: quella delle droghe e quella dei software.

The Social Dilemma ha il merito di aver sottolineato a livello psicologico cosa avviene nelle persone una volta entrate nel vortice dei social e una delle frasi maggiormente evocative è: “non ci siamo evoluti per avere approvazione sociale ogni cinque minuti”. Non a caso, soprattutto la cosiddetta Generazione Z è quella nata sui social, quella della prima ecografia condivisa da mamma e papà sui loro profili Instagram, quella che ha iniziato a fare tap sul tablet prima ancora di tenere in mano una matita. Questa è la generazione che rischia più di tutte il collasso psicologico perché maggiormente esposta a tali stimoli tecnologici e priva di alternative valide per affrontare un impatto così forte e a tratti devastante. L’idea di perfezione che i social hanno trasmesso anche grazie ai numerosi filtri che si possono applicare a una foto prima di pubblicarla è un’idea fallace che genera preoccupazione e ansia in chi tutti i giorni si interfaccia con tutto ciò e in un certo senso lotta con tutte le forze per essere così, per somigliare a qualcosa che in realtà non esiste, a qualcosa di finto e artificiale che ottiene like altrui.

L’implicazione di tale situazione è quella di avere un’intera generazione che è e sarà più fragile rispetto alle precedenti, che avrà problemi di intelligenza emotiva e meno strumenti utili per fronteggiare le situazioni che verranno a crearsi in futuro fuori e dentro i social.

“Quando siamo tristi, soli, abbiamo un ciuccio a disposizione” il nostro smartphone, pieno di applicazioni social alle quali siamo iscritti e che ogni tot minuti andiamo a controllare per sapere cosa succede in quel mondo di cui facciamo parte: “è uno scacco matto all’umanità da parte della tecnologia”.

Il non riuscire più ad avere dialogo quando si è attorno ad un tavolo e si condivide un pasto è ormai realtà affermata. Se fino a non molto tempo fa qualcuno indicava la televisione come lo strumento demoniaco da tenere lontano dal luogo in cui si mangia per cercare di avere dialogo tra i commensali senza essere zittiti dalle ultime news o dal programma di turno, oggi la televisione in questo contesto scivola in secondo piano e l’immagine che se ne ricava è quella di una famiglia seduta attorno a un tavolo dove ogni componente ha in una mano la forchetta e in un’altra il proprio smartphone.

I social allora sono riusciti a cambiare le persone, o meglio il loro comportamento, in nome di un interesse economico.

Giunti a questo punto, nel film ci si chiede “Dov’è la minaccia esistenziale?” e la risposta è che “non è la tecnologia ad essere una minaccia esistenziale, è l’abilità della tecnologia di tirare fuori il peggio della società. Ed è la parte peggiore della società ad essere la minaccia esistenziale. Se la tecnologia crea caos nelle masse, sdegno, inciviltà, mancanza di fiducia reciproca, solitudine, alienazione, più polarizzazione, interferenze nelle elezioni, più populismo, più distrazione e incapacità di concentrarsi sui veri problemi, questo influenza la società e ora la società non è in grado di guarire da sola e sta regredendo, sta scivolando nel caos.”

Il potere dell’algoritmo.

Una parte delle interviste è dedicata all’algoritmo e alle sue implicazioni pratiche presenti e future. Il governo dell’algoritmo sembra a volte sfuggire di mano agli stessi progettisti e il tema si concentra su quanto possa essere “etico” lasciarli in mano alle aziende, al business, perché perennemente orientate all’arricchimento, quindi alla costante ricerca di nuovi modi per capitalizzare.

Nessun accenno al gender digital divide.

Anche se ci sono delle interviste a donne del settore tecnologico, tra le più belle tra l’altro, gli autori non toccano il tema del divario tra uomini e donne nella progettazione di algoritmi e, ancora più a monte, delle piattaforme. Un problema che in Europa sembra essere più sentito anche se il divariuo resta ancora molto forte e pesanti potrebbero essere le conseguenze future.

Un segnale di speranza.

Se è vero che le piattaforme hanno la responsabilità di tali implicazioni sociali e politiche è pur vero che in realtà i comportamenti dei singoli (seppur manipolati) possono comunque fare la differenza se informati e sensibilizzati circa il problema ormai esistente e dilagante.

Se noi tutti realizzassimo, come a un certo punto nel film si afferma, che: “per le aziende siamo più redditizi se passiamo tutto il tempo a fissare uno schermo, una pubblicità, invece che vivere la nostra vita appieno” forse riusciremmo ad essere un minimo più critici verso ciò che ci circonda e che ci accade dall’esterno portando inevitabilmente cambiamenti anche all’interno di noi stessi.

È il nostro spirito critico l’unica ancora di salvezza e per avere spirito critico servono argomenti, serve la conoscenza del fenomeno per comprenderlo fino in fondo e per poterlo affrontare e fronteggiare senza esserne risucchiati del tutto.

“Se non riusciamo ad essere d’accordo su che cosa sia vero allora non possiamo risolvere nessuno dei nostri problemi” nel film con questa frase si fa riferimento ad una sorta di enciclopedia condivisa che a quanto pare non abbiamo. Sembra essere complicato riuscire a delineare un’enciclopedia comune di riferimento in un contesto in cui “i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli” (cit. Umberto Eco).

Piccoli rimedi possibili.

Dopo una disamina del fenomeno, il film fornisce delle “soluzioni”, o comunque invita a modificare il proprio comportamento nei confronti delle piattaforme social per avere una vita migliore pur riuscendo a convivere con qualcosa che sembra essere irreversibile e che in fin dei conti non andrebbe demonizzata, ma solo capita.

Tra i consigli forniti troviamo:

  1. rimuovere i consigliati da You Tube ad esempio
  2. disattivare le notifiche per evitare di essere schiavi dello smartphone
  3. informarsi ed essere esposti a più punti di vista al fine di valutare il fenomeno in toto
  4. essere critici

Regole auree per genitori contemporanei.

Anche le tre regole d’oro fornite sul finale sembrano essere interessanti

  1. tutti i dispositivi fuori dalla camera da letto prima di dormire.
  2. niente social media fino al liceo
  3. stabilire un tempo di utilizzo concordato con vostro figlio.

 

Da Angelo Simone
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